Carlo Giuliani è stato già ucciso. È il 21 luglio del 2001. Siamo a Genova, nel quartiere più elegante della città, Albaro. La scuola Armando Diaz è stata scelta come centro di coordinamento del Genoa Social Forum, che raggruppa tutti i movimenti con i quali condivide valori anticapitalistici. È in corso il noto summit tra i grandi del pianeta: il G8. Le contestazioni violente e vandaliche dei black bloc sono comparse sin dall’inizio. Ma era prevedibile. Genova non è un territorio urbanisticamente facile da difendere o tenere sotto controllo. Anche questo lo si sapeva. L’assassinio di Carlo Giuliani ne è una triste dimostrazione. Migliaia sono i manifestanti pacifici presenti che bisogna difendere e proteggere dalle violenze degli estremisti. Il Genoa Social Forum dà riparo e indicazioni a quanti arrivano da fuori Genova, italiani e stranieri; organizza e supplisce con i suoi volontari alle carenze istituzionali. Ma il 21 luglio del 2001, tra le dieci di sera e la mezzanotte, la scuola Diaz, usata come dormitorio e centro di accoglienza, in cui sono presenti non soltanto 93 attivisti pacifici ma anche giornalisti, viene assaltata dalla polizia che a colpi di tonfa provoca lesioni gravi a tutti coloro che lì stavano riposando. Spinta da una ferocia inaudita, la polizia colpisce spietatamente chiunque, nonostante le mani alzate in segno di resa, nonostante il pianto di chi trema per la paura, nonostante il sonno tranquillo in cui molti vengono trovati, nonostante gli svenimenti per i maltrattamenti, nonostante si fosse giornalisti semplicemente ospitati per la notte, nonostante gli occhi di molti implorino pietà. E bara. Mente sulle presunte armi improprie trovate dentro la scuola; mente sulla ricostruzione degli avvenimenti nella stesura dei verbali; mente sulle supposte ferite inferte agli uomini della squadra. Amnesty International considera i fatti della Diaz come la «più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». E la ferocia continua nella notte. Dentro la caserma di Bolzaneto si arriva a toccare i vertici della subumanità, il cui paradigma sono i fatti indegni accaduti a una ragazza tedesca, magnificamente interpretata da Jennifer Ulrich, denudata, offesa, oltraggiata, torturata.
Tutti impuniti questi difensori della legalità, mai sospesi, sempre in servizio da allora. Pene, da considerare troppo lievi, soltanto a venticinque dei ventisette imputati.
Questo tenta di raccontare il film di Daniele Vicari.
All’uscita dalla sala, dopo aver visto il film di Vicari, il silenzio sovrasta la volontà della parola di farsi interprete dell’emozione, che ancora travolge il corpo, e di articolarsi in suoni anziché star chiusa a riccio in una rabbia potente che ha tutta l’apparenza di un mal di pancia. L’enigma della ferocia umana ha paralizzato lo spettatore per due ore, destandolo dal sogno di un’umanità ormai matura, sana, gioiosa e avvertita grazie all’insegnamento di eventi storici barbarici, efferati, spietati, disumani, crudeli, atroci, empi, bestiali, brutali, ineffabili, che mai più accadranno. Illuso, uomo del mio tempo. «Sei ancora quello della pietra e della fionda,/ Uomo del mio tempo».
Un film dunque necessario. Quando però chi è un po’ più consapevole si riprende e comincia a riflettere senza più la sospensione che il film di Vicari ha creato con le sue immagini crude di violenza, di brutalità, di sopruso, di maltrattamento, di prepotenza, che rendono difficile arrivare sino in fondo alla pellicola senza un rigurgito di disgusto per quegli esseri ignobili che si ergono a difensori della legalità, allora una domanda sorge, prima ancora che la parola sciolga le labbra serrate dalla rabbia. Sorge nel nostro intimo, sorge assieme a quella coscienza risvegliata: “Perché?”. E Vicari è muto. Non lo dice nel suo film. Lascia che lo spettatore all’uscita rimanga imprigionato in un risveglio di terrore, in un incubo in cui sembra non esserci alcuna via d’uscita se non il ritorno in un sogno falso. È, una tale violenza, semplicemente radicata nell’essenza stessa dell’uomo? È dunque insensata? Senza scopo se non quello di far del male ai propri simili o a tutto ciò che si può distruggere? Sembra così nel film di Vicari. Sia perché nella sceneggiatura non si fanno nomi, neppure di quelli che sono stati già condannati, sia perché non si comprendono le ragioni dei movimenti pacifici che facevano capo al Genoa Social Forum, sia perché è un film che non ha il coraggio di andare fino in fondo sia perché non accenna se non superficialmente a una regia politica con scopi propagandistici ben coglibili che è stata il grande burattinaio dell’operazione. Salvarci dai black bloc? Sgominare i violenti? Difendere i buoni? Giammai, piuttosto creare terrore a colpi di tonfa per ricordare che è meglio stare allineati.
Epperò, il film di Vicari non è soltanto un ottimo film dal punto di vista cinematografico ma è anche un film necessario. Insomma, è sempre meglio che sia stato girato piuttosto che il contrario. Bando dunque ai se, ai ma e ai però.
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